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martedì 1 dicembre 2015

I fischietti di Mario Iudici in mostra al museo della ceramica di Caltagirone


Sarà visitabile ancora per alcuni mesi la mostra dedicata ai fischietti in terracotta di Mario Iudici e inaugurata lo scorso 27 novembre a Caltagirone. L’esposizione è allestita all’interno del Museo Regionale della Ceramica di Caltagirone, e rappresenta contemporaneamente un omaggio ad uno dei più importanti ceramisti calatini e ad un oggetto – il fischietto – fortemente legato alla tradizione artigianale locale.

La mostra espone l’intera collezione di fischietti del Maestro Iudici - oltre 170 pezzi tra soggetti tradizionali e creazioni originali del Maestro Iudici – come quelli che rappresentano le teste di paladini e quelli ispirati all’arte fenicia. Tra i fischietti della tradizione sono ovviamente molto presenti i “santi col fischio” che rappresentano una delle espressioni più caratteristiche e originali della ceramica popolare di Caltagirone.

Per esporre i pezzi, i curatori della mostra hanno realizzato un allestimento piuttosto originale: una sorta di gabbia luminosa realizzata in metallo, mattoni di terracotta e luci led. All
L'allestimento della mostra
’interno di questa gabbia di forma circolare è contenuta “l’anima dei fischietti” - ovvero gli stampi di gesso con cui questi vengono realizzati – mentre sul perimetro sono collocate le teche con le opere.

In occasione dell’inaugurazione è stato organizzato un convegno che si è tenuto alla presenza del Maestro Iudici. Si è trattato di una opportunità per approfondire i significati del frischittu calatino, e più in generale per riflettere sulla tradizione e sulle prospettive della ceramica locale. Particolarmente interessante è stato l’intervento del Prof. Cilberto, ordinario di chimica inorganica dell’Università di Catania, che ha parlato delle caratteristiche uniche della creta di Caltagirone.
La bellezza della creta locale depurata a mano può essere ammirata anche nei fischietti esposti raffiguranti Sant’Agostino e realizzati da Giacomo Iudici – figlio del Maestro. Per permettere ai visitatori di ammirare venature e sfumature della creta non industriale, accanto al Sant’Agostino decorato ve n’è uno in creta cruda e uno in terracotta grezza.

una vetrina di fischietti
Oltre ad essere una occasione unica per vedere l’intera collezione di bellissimi e coloratissimi frischitti calatini, visitare la mostra può rappresentare anche l’opportunità per ammirare un Museo che raccoglie una delle collezioni di ceramica più importanti a livello nazionale.

C’è da sperare che questa bella mostra contribuisca a rilanciare l’attenzione verso i fischietti in terracotta. Negli anni ’80 e ’90 Caltagirone è stata pioniera del movimento per la valorizzazione di questi oggetti, grazie alle Rassegne internazionali organizzate con il contributo decisivo del compianto Salvatore Cardello. In quegli anni fu anche acquisita una eccezionale collezione di fischietti provenienti da tutto il mondo; sorprendentemente questa collezione unica – di proprietà della Regione Sicilia - da oltre 15 anni giace in un  deposito. E’ decisamente arrivato il momento di esporla e valorizzarla, magari all’interno del nuovo museo della Ceramica che dovrebbe vedere la luce presso la sede di Sant’Agostino.
Il Maestro Iudici

lunedì 17 novembre 2014

Cocci e Fischietti della Tuscia: le botteghe di Vetralla, Vasanello, Tuscania, Acquapendente

Memorie e Suoni di Terra - conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore

La Tuscia è stata terra di cocci e fischietti fino agli anni ’50 del secolo scorso. In paesi come Vetralla, Vasanello, Tuscania o Acquapendente le botteghe di ceramiche popolari erano così numerose che vi erano intere strade e quartieri specializzati nella produzione delle terrecotte.  Lo testimoniano le parole di alcuni degli ultimi cocciari attivi in questi paesi:
Felice Ricci: “Bisognava veni’ 60 anni fa. Ce n’erano tanti (di cocciari). Di qui fino a su erano tutte grotte, e facevano tutte questo mestiere. Avoglia! Saranno state 14. Anzi, prima della guerra saranno state pure di più. C’erano i Pistella, i Paolocci, la Scimmia. Erano famiglie che ce se campava.”
Francesco Ricci: “Prima era così, via dei Pilari era tutta una via di pignattari. Ti parlo sempre di prima della guerra. C’erano anche altri mestieri, ma la figura che proprio rappresentava Vetralla è stato sempre il pignattaro, il cocciaro.”
Bruno Orlandi: “(Il Paese si chiama Vasanello) perché prima qui c’erano tutte botteghe, tutte fornaci. Se uno va negli scantinati, trova tutte fornaci”
Orlando Orlandi: “Che me ricordo io, subito dopo la guerra c’erano 7 botteghe. 4 erano concentrate proprio quaggiù, in questa parte del paese. Poi c’era un’altra verso l’Ortaccio e 2 alle Predicare.”

Abbiamo chiesto ad alcuni artigiani della zona di aiutarci a ricostruire come si svolgesse la vita del cocciaro e quale fosse la produzione di queste botteghe. Le persone intervistate sono in alcuni casi
anziani artigiani che hanno speso tutta la vita lavorando nelle coccerie; in altri casi abbiamo parlato con i figli di questi maestri, che dopo aver frequentato in gioventù la bottega paterna si sono dedicati ad altre attività.

  • A Vetralla abbiamo raccolto le testimonianze di Felice e Francesco Ricci. Il primo ha portato avanti il mestiere del cocciaro fino a pochi anni fa; il nipote Francesco ha lasciato la bottega di famiglia da ragazzo, ma ancora oggi continua per hobby a realizzare cocci e fischietti.
  • A Vasanello abbiamo parlato con Orlando Orlandi, appartenente a quella che è probabilmente la famiglia locale con una maggiore tradizione nel campo della ceramica popolare.
  • Per quanto riguarda Tuscania ci siamo rivolti a due famiglie di produttori locali: i Pizzinelli ed i Lucchetti. Per quanto riguarda i primi abbiamo parlato con Gianfranco Pizzinelli, che ha imparato il mestiere da apprendista, ma poi ha lasciato la bottega di famiglia per dedicarsi all’attività di restauratore. Rispetto ai Lucchietti abbiamo raccolto la testimonianza di Valentina e Bruno – rispettivamente moglie e figlio di Angelo, l’ultimo cociaro attivo nel paese.
  • Ad Acquapendente abbiamo intervistato Sergio Polacco, ceramista oramai in pensione e figlio del cocciaro Osvaldo Polacco.
Queste testimonianze dirette sono arricchite da alcuni stralci di interviste ad artigiani ormai scomparsi riportate dal bellissimo volume Ceramica Popolare del Lazio.[1]

Molte di queste famiglie rappresentano vere e proprie dinastie di pignattari, nelle quali il mestiere veniva trasmesso di padre in figlio da molte generazioni.
Orlando Orlandi modella un fischietto (foto G. Croce)
Orlando Orlandi: “Facevano i cocciari mio padre Alverio, e Ovidio - che era mio zio. Poi c’era Linceo Orlandi e Bruno, che eravamo cugini. Facevano questo mestiere nonno Giovanni e anche nonno Lanno, che era il mio bisnonno.“
Gianfranco Pizzinelli: “In famiglia mia un po’ tutti facevano i cocciari. Mio Bisnonno faceva il cocciaro a Cetona. Anche i miei Zii erano 7 fratelli e c’avevano una grossa fabbrica ad Acquapendente. Facevano mattoni, laterizi, queste cose qui. Stavano sempre nel ramo. [2]
Mio Bisnonno è morto di polmonite per una freddata, che è una cosa che succedeva facilmente quando lavoravi alle fornaci. E allora mio Nonno - che era figlio unico - è venuto da Cetona verso il 1908 per lavorare ad Acquapendente. Aveva 17-18 anni ed è andato a lavorare subito da un certo Mezzetti che c’aveva una cocceria.”
Felice Ricci: “non so dire da quanto tempo la mia famiglia lavora la terracotta: io ci ho trovato mio nonno Ilario e mio padre Francesco.”

Il più delle volte la cocceria era strutturata come una piccola azienda nella quale tutta la famiglia del cocciaro era impegnata nella produzione, comprese donne e bambini.[3]
Felice Ricci: “A quel tempo tutte le famiglie davano ‘na mano a fa’: marito, moglie, figli, cugini, nipoti...”
Valentina Lucchetti: “Aiutavo sempre mio Marito, gli preparavo la creta: la maneggiavo, la pulivo dai sassi, poi gli facevo tutte palle, e lui la lavorava. Mi dolono le braccia per tutta la creta che ho maneggiato!
Quando siamo andati a lavorare da Mezzetti, lui vide che ero tanto magra e mi  disse: “ma questa non è buona a niente!” Poi mi misero al forno a tirà su le fascine. Le assestavo bene e poi le tiravo su. E a quel punto Mezzetti cambiò idea: “porca miseria, pareva che non sapevi fà niente, invece sei mondiale!”
Poi c’era da prendere gli oggetti quando si sfornava. E allora gli uomini sfornavano ‘ste cose dalla parte alta della fornace e io sotto le pigliavo. E a volte dovevo dirgli: “fate piano, fate piano!” Ma una volta una brocca mi finì sopra il ditone del piede. Mi toccò andà all’ospedale!
Andavamo anche a fa’ le fascine alla macchia. Si lavorava la notte pure!”
Orlando Orlandi: “Eravamo io, mio fratello e 3 sorelle. E da ragazzetti lavoravamo tutti in bottega. Perché nelle famiglie artigiane aiutavano tutti, ognuno con quello che poteva fare. Donne comprese.”

Una particolarità dei cocciari - e più in generale degli artigiani - del viterbese sta nel fatto che spesso ciascuna famiglia veniva identificata da un soprannome.
Felice Ricci: “Qui si va tutti a soprannomi: Checco Lallo, la Scimma, il Burica...”
Francesco Ricci: “Tutto il paese aveva il soprannome, però in particolare il pignattaro, che era la figura che più rappresentava Vetralla. Ogni pignattaro c’aveva il suo soprannome, e pe’ capisse dove avevi preso la robba dicevi: questo pignatto l’ho preso da Cinque Ciocche, da Checco Lallo, dalla Scimmia, dal Burica …Adesso neanche me li ricordo tutti.
A noi ci chiamavano Checco Lallo perché il nonno se chiamava Francesco e il bisnonno Ilario: quindi Lallo e Checco. Però gli altri soprannomi non so da dove venivano.”
Gianfranco Pizzinelli: “Nel viterbese tutti hanno un soprannome. Angelo Lucchetti era er Ciappotta perché era il fijo de Ciappotta. Ora lo dicono anche al fijo.
Noi avevamo il soprannome cocciaretto, perché Nonno era venuto che aveva 17 anni e faceva il cocciaro, quindi cocciaretto.
A Mezzetti invece je dicevano Zì Caco. Una volta lì al paese c’erano i gabinetti pubblici. La bottega sua era giù di sotto, e allora di corsa veniva su al paese per usare il gabinetto. Dicono che venne di corsa e mentre veniva si sbottonava i pantaloni. Appena arrivato aprì la porta, se girò e je dette giù. Solo che c’era già uno dentro, era occupato! Un macello poraccio! Apposta da quella volta je dicevano er Zì Caco.”

Il mestiere del cocciaro tra fatica e orgoglio

Nei racconti dei cocciari torna di frequente il tema della fatica, dei sacrifici richiesti dal loro mestiere.
Felice Ricci: “Io non l’auguro a nessuno di lavora’ come si faceva 100 -200 anni fa, ai tempi di mio Nonno. E come facevo io,  piccoletto, 80 anni fa. Freddo, caldo, umidità... Impasta’ la terra, annalla a scava’ con  picco e pala, portarla col somaro. Mica è come adesso che è tutto pronto: forno elettrico, smalti. Io ci ho preso la polmonite. Ma mica solo io: l’hanno presa tutti questi cristiani. E mica c’era l’assicurazione!”
Gianfranco Pizzinelli: “Il mestiere nostro era che se c’era da fare toccava lavorare pure la domenica. E non c’erano le ferie: io le ferie le ho fatte dopo che ho smesso e sono venuto a Roma. 
Feste ce n’erano poche, e poi era faticoso pure. Lì uno si doveva alzare la mattina e dire: che cosa c’è da fare oggi? Oggi ci sono da fare 150 -200 vasi. E allora lì una giornata a fare la stessa cosa. Era un diversivo quando si andava a fare la creta, che poi si fatica di più!
A mio Padre gli dolevano anche le braccia, perché stai sempre con le mani a bagno, no? Ci si ammalava pure perché le fornaci venivano sfornate calde e bruciavano, poi dopo magari uno prendeva le freddate... era un po’ un casino!”

L’impegno e l’abnegazione non garantivano sempre un reddito sufficiente, tanto che a volte era necessario integrarlo svolgendo altre attività, come l’agricoltura.
Ovidio Orlandi: “c’avevo un po’ di terreno lasciato da mio Padre e insomma se abbuscava un po’ da ‘na parte un po’ da ‘n’artra e si tirava avanti così, alla mejo.”

Eppure, nonostante la consapevolezza dei sacrifici, negli artigiani finisce sempre per prevalere l’amore e l’orgoglio per il proprio mestiere.
Bruno Orlandi: “Si soffre, si richiede un impegno che farebbe piangere una persona normale…è pericoloso per queste malattie qua: reumatismi, artrosi…è un mestiere orrendo; via, è bello, è bello perché uno crea delle cose, con le stesse mani, con lo stesso ingegno.”
Ovidio Orlandi: “Era un mestiere sempre stimato, era un mestiere degli unici; tra ragazzi quando sapevano che facevi il cocciaro, te guardavano tutti: andavano tutti in campagna …andavi da n’a ragazza, non ce potevi fa’ fiasco. Il padre diceva: con chi fai l’amore? Quello fa il cocciaro, ah si,  prendilo. Quello c’ha un mestiere tra le mani, è un bel partito. Invece un contadino non lo guarda nessuno.”

Le grotte-laboratorio

Fino ad anni recenti, i cocciari della Tuscia hanno continuato ad usare le medesime tecniche produttive imparate dai loro genitori e nonni senza l’introduzione di sostanziali innovazioni tecnologiche:[4] preparavano da soli la creta e gli smalti, modellavano i pezzi con il tornio a pedale, li cuocevano nelle grandi fornaci a legna.

stampo di un fischietto di Sergio Polacco
Il fatto che le coccerie della Tuscia fossero spesso collocate in grotte scavate nel tufo contribuiva a fornire loro un fascino arcaico. E’ ad esempio il caso di Vetralla, dove le grotte erano tutte concentrate in via dei Pilari. Ma anche le botteghe dei Pizzinelli a Tuscania e di Alverio Orlandi a Vasanello erano ricavate nella roccia.
Felice Ricci: “Questa è la grotta di Checco Lallo. Qui ci sono solo grotte, non è che c’è qualche cosa di  fabbricato.”
Orlando Orlandi: “La nostra bottega stava proprio dentro al tufo, è scavata tutta nel tufo. Era umido e ci accendevamo un po’ de fuoco. Babbo poi s’era fatto una stufetta de terracotta. La bottega di Zio invece no, era costruita.”
Gianfranco Pizzinelli: “La parte davanti - dove stavano i torni, dove se lavorava - è costruita. Poi giù in fondo c’erano i forni. E questa parte interna è di masso. Sta sotto alla montagna, sotto al poggio.”

La grotta-laboratorio di Checco Lallo è rimasta sostanzialmente intatta, e non è un’esagerazione dire che entrarci significa fare un salto indietro nel tempo. Se non fosse per alcuni indizi di modernità – come l’illuminazione al neon – si potrebbe trattare della ricostruzione della bottega di un cocciaro fatta da un museo di arti e tradizioni popolari. Due torni a pedale affiancati, tre fornaci a legna, la macina in pietra per gli smalti, le rustiche scaffalature, la nicchia piena di creta grezza, potrebbero tranquillamente essere l’arredo di una cocceria di 100 o 200 anni fa.
Felice Ricci: “Questo attrezzo qui (il tornio a pedale) si gira con il piede e via. Lo avrà costruito mio Nonno. Mica qui c’è quello a elettricità, che si rovina. Era tutto a mano, ho lavorato sempre con questo. E i forni erano tre: uno, due e tre. A quei tempi bisognava lavorare! Qui si mettevano gli oggetti e qui con le mani si buttava la legna.” 
Francesco Ricci: “I torni a pedale sono due:  questo era de mio Zio, quello del mio Babbo. Questo tornio tutto noi l’amo fatto, era de mio Nonno. E’ 50 anni che c’è.”

La grotta di Alverio Orlandi è stata invece smantellata. Quando la visitiamo, il racconto del figlio Orlando la fa tuttavia rivivere davanti ai nostri occhi: “Questa era la parte dove si lavorava proprio. Qui c’era il tornio. Questa è la tavola che ce se metteva a sede’ il torniante, e la ruota si girava proprio col piede. Lì ce stipavamo l’argilla dentro. Qui c’erano…noi li chiamavamo i catenieri. Sarebbero gli scaffali per appoggiare i pezzi, che erano in legno. Qui c’era una pietra che girava pe’ macinare il piombo. Vedi, questo è il bariletto dove ci tenevamo il piombo, il minio. Infatti vedi: è rosso. Gli oggetti poi se portavano lì alla fornace per cuocerli. Quello era un pozzetto pe’ la calce. Qui era un deposito per la legna, e ci mettevamo pure gli oggetti. Quando era estate mettevamo qui fori gli oggetti ad asciugare.”

Estrazione e preparazione della creta

Attraverso il racconto degli artigiani seguiamo ora le varie fasi del ciclo produttivo, a cominciare dall’approvvigionamento di creta. Ovviamente, i cocciari del viterbese utilizzavano argilla locale: a Vasanello e Vetralla si estraeva creta rossa, particolarmente adatta per realizzare pignatte e altri contenitori da fuoco; ad Acquapendente si trovava una terra bianca, anche se ricca di ferro; a Tuscania erano presenti sia l’argilla bianca che quella rossa – quest’ultima detta in gergo locale il “porcino”. La materia prima veniva a volte cavata e trasportata fino in paese dagli stessi artigiani, in altri casi da operai appositamente ingaggiati.
Sergio Polacco: “Un tempo prendevamo l’argilla oltre il fiume Paglia. Ancora prima addirittura si prendeva sulla via Cassia, dove c’è la fornace dei laterizi. Certe volte andavamo noi a prenderla, altre la facevamo cavare. Ce la portavano e poi la lavoravamo noi.”
Orlando Orlandi: “Nella zona c’è terra rossa, questo tipo di argilla. Si prendeva verso Orte, c’erano delle cave di argilla e si cavava lì. Non erano nostre le cave, però c’avevamo il diritto di cavare l’argilla e poi dovevamo ripristinare il terreno.
Per cavare l’argilla si usava il cavaciocco, un attrezzo che si teneva in bottega. Era una zappa un po’ più stretta della zappa quella normale. Lo facevamo l’estate, il mese di agosto. Bisognava togliere la parte sopra,  il cappellaccio. Poi bisognava cavarla e trasportarla. Si portava a casa  con gli asini, da li saranno tre chilometri. C’erano delle persone che avevano gli asini e facevano proprio questo lavoro. Coi sacchi portavano la creta e si stipava dentro la bottega.”
Bruno Lucchetti: “La creta era quella porcina. La andavamo a prendere noi alla Macchia del Cerro.”
Gianfranco Pizzinelli: “Avevamo la terra bianca e anche la terra rossa con cui facevamo pignatti, brocche. E’ di Tuscania anche quella, si trovava alla macchia. C’è una macchia comunale e noi c’avevamo il permesso per prende ’sto porcino, la terra rossa.
Quando ce serviva la creta e non trovavamo nessuno che andava a prenderla, lo facevamo da soli. La domenica mattina andavamo giù e si cavava un carro, due carri, quello che poteva servì. Prima c’era il cappellaccio sopra. Era quella terra sempre cretosa, però giallastra. Si levava tutta quella finché si trovava la terra quella bella azzurra. Si cavava, si faceva a mucchi, ce la portavano.”

La creta estratta dalla cava doveva essere lasciata all’aria aperta e fatta asciugare. Questa operazione avveniva a volte presso la bottega, altre presso lo stesso luogo di estrazione.
Francesco Ricci: “Se portava qui che era molla, e se asciugava di fuori al sole. Se lasciava fuori due settimane in modo che se asciugava bene.”
Orlando Orlandi: “Poi bisognava lasciarla asciugare, perché sotto era un po’ fresca l’argilla. E allora si spandeva sul terreno e si lasciava asciugare sul posto per qualche giorno.”

A questo punto cominciava la depurazione e raffinazione dell’argilla. Il processo comprendeva numerosi passaggi durante i quali la creta veniva frantumata, setacciata, diluita e fatta decantare in vasche d’acqua, impastata fino a renderla uniforme e pronta per essere modellata.
Sergio Polacco: “Veniva spezzata con un martello, messa a bagno in delle vasche, e stava li qualche giorno in modo che si macerava. Dopo quando era più dura veniva battuta con la verga di ferro e maneggiata. Poi veniva messa in qualche locale fresco e coperta con degli stracci, che allora la plastica non c’era. E mano mano che serviva veniva presa.”
Orlando Orlandi: “Questa argilla asciugata si metteva dentro una vasca e si bagnava di nuovo. Poi si passava dentro a questi due rulli che girano per schiacciarla, per renderla più fine. Poi si metteva su un banco, si batteva con un paletto di ferro, sempre per affinarla di più. E poi si lavorava al tornio. Si faceva un mucchio grande e si prendeva man mano che serviva. Il rullo già un innovazione, in un certo senso. Perché anticamente la impastavano coi piedi.”
Francesco Ricci: “Poi una volta che era asciutta, che era secca, se setacciava con ‘sto passino qua, e se pigliava solo quella fina fina. Poi lo scarto veniva messo a mollo, e poi se passava di nuovo con questo setaccio più fino, così se toglieva tutto lo scarto, tutti li sassi. E rimaneva solo la creta. Se impastava a mano e se facevano dei blocchi.”

Le modalità di preparazione della creta potevano essere leggermente diverse a seconda delle botteghe. I Ricci avevano ad esempio escogitato un metodo rudimentale ma efficace per effettuare una prima raffinatura dell’argilla: le zolle venivano sparse sul pavimento della bottega e polverizzate
Felice Ricci nella grotta-laboratorio
con i piedi grazie al passaggio continuo di cocciari, apprendisti, famigliari. I Lucchetti invece raffinavano l’argilla lasciandola nell’acqua e facendola decantare; in questo modo si sfruttava il naturale processo di sedimentazione delle impurità, che si depositavano sul fondo del contenitore.
Francesco Ricci:  “Se metteva qui in modo che ce se passava sopra e diventava fina. Passandoci sopra se raffinava. Perché adesso non c’è nessuno, ma prima tra me, mio Padre, mio Zio, mio Fratello, mia Madre qui se passava tutti quanti de qui.”
Bruno Lucchietti: “Dopo averla setacciata l’argilla si raffinava facendola decantare nell’acqua. Per gravità la parte sassosa, la parte più pesante, va sul fondo, e quella più fina rimane sopra. Noi prendevamo solo quella superficiale, basta aspirarla. E la mettevamo ad asciugare.”

Ovviamente per preparare la creta – e successivamente per modellarla - era essenziale poter contare su un abbondante approvvigionamento di acqua. Orlando Orlandi ci racconta che prima della costruzione dell’acquedotto in paese, era necessario andarla a prendere alla fonte e trasportarla fino alla bottega utilizzando i ripidi vicoli del paese. Per limitare al massimo questa incombenza, la sua famiglia aveva costruito un impianto di raccolta delle acque piovane. Le tubature utilizzate erano state realizzate in terracotta da loro stessi: “Qui c’era la porta del paese. Era la porta occidentale che andava giù alla fontana per prendere l’acqua. Prima non c’era l’acqua in paese e mio Padre e mio Nonno la prendevano laggiù. Poi dopo nel ‘35 hanno fatto l’acquedotto.
Queste tubazioni erano pe’ raccoglie l’acqua. Siccome non c’era l’acqua qui, allora quando pioveva qui sopra si raccoglieva l’acqua in questa vaschetta. Le tubazioni so’ di terracotta, queste le faceva pure mio Padre.”

La modellatura

Erano due le tecniche utilizzate per modellare gli oggetti: il tornio o gli stampi di gesso. Ce ne parla Sergio Polacco: “Molto si faceva al tornio: brocche, panatelle, boccali. Il tornio era di legno con una ruota grande sotto che si girava con il piede. E poi c’era un asse e un piatto sopra dove si poggiava la creta per fare l’oggetto.
Altre cose venivano stampate con gli stampi di gesso che si calcavano a mano. Anche quella era una tradizione molto vecchia. A calco facevamo i portaombrelli – che già avevano un mercato a Roma - e altre cose che non erano rotonde. Poi bassorilievi, pannelli, queste cose.“

Se alla raccolta e alla preparazione della creta contribuiva tutta la famiglia dell’artigiano, la tornitura era invece una abilità che rimaneva appannaggio del solo maestro cocciaro. Bruno Lucchetti mantiene ancora in perfetta efficienza l’antico tornio a pedale del padre Angelo, e ci spiega come avveniva la tornitura: “Questo era il tornio di mio Padre, tutto fatto in castagno. Lui diceva che era dei primi del ‘900, e va ancora bene!
Il segreto della tornitura è riuscire a mettere l’argilla al centro. Se la pallina di argilla la metto perfettamente al centro del piatto riesco a modellarla. Se invece la metto storta a fine vaso non ci arrivo. E’ tutta lì la bravura:  nel momento in cui gira il tornio bisogna mantenere una mano ferma e con l’altra cercare di portare al centro la pallina di argilla. Nel momento in cui uno la porta al centro vanno giù i pollici per fare il foro centrale. E poi si riprende l’argilla e si tira su.”  

Gianfranco Pizzinelli sottolinea che, dovendo gli artigiani produrre grandi quantità di oggetti, il lavoro di tornitura poteva risultare faticoso e ripetitivo. Francesco Ricci spiega invece come in una bottega di pignattai ci poteva essere una sorta di specializzazione produttiva, con un maestro maggiormente dedito alla tornitura ed un altro alla cottura.
Gianfranco Pizzinelli: “Io lavoravo sul tornio a pedale, perché per imparare bisognava lavora’ con quello. Nel ‘55, o anche un po’ prima fecero quelli elettrici, e mio Nonno e mio Padre lavoravano con quelli. A loro gli piaceva, erano innamorati di quel mestiere. Di fatti lo avrebbero fatto pure la notte. Ma a me non me piaceva, sarà perché ero giovane. Mi annoiavo a stare sempre sopra quel tornio… Magari mi facevano fa’ 100 boccaletti, oppure 100 vasi, oppure 100 brocche…”
Francesco Ricci: “Mio Zio ce lavorava pure sul tornio, ma era più per il forno. Lui infornava, combatteva con la creta, e io lo aiutavo. E mio Babbo era più per lavora’ sul tornio. Infatti il lavoro che faceva lui è tutta un’altra cosa.”

Gli oggetti realizzati dai cocciari erano principalmente tegami e stoviglie semplici ed essenziali, destinati alle case di contadini e pastori. Si trattava di un campionario di prodotti limitato e ben definito, anche se prodotto da ciascun artigiano con un suo stile particolare.
Orlando Orlandi: “Nella fornace nostra, mio Padre, generalmente faceva la stoviglieria più domestica: i pignatti, le casseruole, tegami per forno. Si andava dal pignattello piccolo piccolo - che generalmente si usava per scalda’ il vino - fino alla pignatta grande, con due manici. E quelle generalmente le usavano le famiglie numerose, nei casali, nelle campagne.”
Bruno Lucchetti: “Mio Padre faceva le scole – quelle per scolare la pasta - i quartaroncelli, i quartaroni da cinque litri e le brocche da 5 litri.”
Felice Ricci: “A Vetralla si fanno piatti, vasi, orci, bicchieri, pignatti, tutto a mano. Le forme erano sempre quelle, ma cambiava la mano: chi le faceva più panciute, chi con la bocca più grande chi più piccola.”
Francesco Ricci:“Ogni pignattaro c’aveva il modo suo de fa’ la robba. Qui sul tornio, ogni cocciaro c’aveva la mano sua, non è che potevi di’ che erano tutti uguali.”

Gli artigiani intervistati ci parlano anche di alcune produzioni particolari da tempo scomparse dalle nostre case, come i contenitori per cuocere la nociata sulla stufa o le bettine - recipienti per alimenti così capienti che era necessario realizzare separatamente le componenti e poi assemblarle insieme.  
Orlando Orlandi: “Facevamo anche dei grandi contenitori, qui in dialetto le chiamano le bettine. Generalmente le usavano per l’olio, ma ci mettevano pure i legumi. Quelle più grandi
patalocca di Alverio Orlandi (foto G. Croce)
arrivavano a 60, 70, 80 litri. Le facevano con il tornio in 2 pezzi e poi li accoppiavano. Sul bordo si faceva una canalina per incastrarli insieme, erano maschio e femmina, diciamo. Poi si incollava bene e in quel punto ci facevano una fascia sempre in terracotta. Era una fascia a rilievo che poi ci facevano qualche decorazione sopra: o con le ditate oppure col pettine.”
Francesco Ricci: “Questo che ha il fondo stretto è indicato per farci la nociata, un dolce che se usa l’inverno. Va messa dentro la stufa. Qualche vecchietto ancora se ricorda di ‘ste cose e gliela fo.
La roba che se faceva prima era tutta roba che s’addoprava: se andava a prende l’acqua, il vino, se cuoceva il sugo. Ora se le prendono per bellezza.”

Se buona parte della produzione era dedicata agli utensili da cucina, non mancavano altri oggetti di uso domestico – come gli scaldini – ma anche materiali per l’edilizia – come mattoni e tubature.
Orlando Orlandi: “Lo scaldino si  faceva al tornio e poi si traforava. E con questi stampi di gesso si facevano le decorazioni. Erano lavori che li facevano la sera in casa, perché ci voleva molto tempo e le botteghe erano senza luce. Allora durante il giorno lavoravano in bottega fino a una cert’ora, poi la sera a casa facevano questi lavori che ci voleva più tempo.
Ci facevamo anche i mattoni qui, quelli di terracotta per i forni, per le costruzioni. La produzione era limitata perché era tutta fatta a mano. Questo ad esempio era lo stampo de un mattone.
Se faceva tutto, anche i tubi pe’ i gabinetti de allora.”

Gli oggetti di argilla fresca venivano esposti all’esterno della bottega per favorirne l’essiccazione. Bisognava ruotarli periodicamente su se stessi perché l’asciugatura fosse omogenea, evitando così la formazione di crepe. E soprattutto bisognava stare attenti alla pioggia, che avrebbe rovinato irrimediabilmente la merce.
Gianfranco Pizzinelli: “Bisognava mette fuori le brocche, i vasi, quello che c’era, e falle secca’, perché sennò non si potevano inforna’. E allora magari se mettevano fuori la mattina e a pranzo o la sera si rimettevano dentro.”
Orlando Orlandi: “Qui sopra ce mettevamo le tavole con i pignatti ad asciugare. Dalla bottega si portavano qui e si mettevano ad asciugare. Ogni tanto se giravano un pochino. Se pioveva toccava corre! Tante volte magari si andava a pranzo, si annuvolava, pioveva, e noi giù di corsa a metterli dentro. Se no la pioggia li squagliava tutti!”

La Cottura

La cottura era una delle fasi più complesse del ciclo produttivo, e richiedeva notevole perizia ed esperienza. Le abilità richieste agli artigiani comprendevano il saper costruire o restaurare le fornaci, dato che si trattava di compiti svolti autonomamente da ciascuna bottega.
Francesco Ricci: “I forni li facevano tutti tra de loro, tra pignattai. Potevano chiama’ qualche muratore pe’ fa il rivestimento -  perché fatto a una certa maniera durava un po’ di più. Però l’archi e tutto il resto facevano tutto loro.”
Orlando Orlandi: “Quella piccola di fornace, quella l’ho costruita proprio io. E questa era quella grande di mio Padre. C’è la data di quando l’ha restaurata: 1935.”
Gianfranco Pizzinelli: “La fornace nostra l’abbiamo fatta noi, l’anno fatta mio Nonno e mio Padre.”

Francesco Ricci nota come quando si costruiva una nuova fornace non sempre era garantito un risultato ottimale. Inoltre, l’avvento della cristallina - che sostituì gli smalti a base di piombo -  costrinse gli artigiani ad aumentare la temperatura delle cotture e quindi anche a cambiare i materiali di costruzione della fornace, passando ai più resistenti mattoni in refrattario: “Questa fornace tira senza canna fumaria. Non ha lo sfogo sopra, non c’è il buco. Il fumo usciva da solo. Forse è la spinta dell’aria che entra dentro la grotta, ma il fumo esce direttamente.
Quella invece è un'altra fornace. Non cucina bene, perché non funzionava bene lo sfogo dell’aria. Praticamente sotto se bruciava e sopra nun se coceva. Trovare il punto per fare le fornaci mica è facile. Prima a tentativi facevano.
La cottura non si poteva fa’ più come prima. Perché il piombo era tossico e allora è stato eliminato ed è stata messa in commercio la cristallina. Prima le fornaci bastava farle con il peperino. Quando se coceva arrivavano a 800 gradi ed era cotto, perché si adoperava il piombo. Invece adesso tocca adopera’ la cristallina che deve arrivare a 950-960 gradi per far si che diventi lucida. A quella temperatura il peperino se squaja. E allora bisogna mettece il refrattario bono.”

Ovviamente le fornaci erano costruite con una struttura a più livelli. Alla base vi era la camera di combustione - dove veniva bruciata la legna - e al livello superiore l’ambiente dove veniva stipata la merce da cuocere. I due settori erano separati da un solaio costruito in modo da permettere il passaggio del calore e allo stesso tempo da limitare il contatto tra gli oggetti e la fiamma, che avrebbe causato danni e rotture.
Bruno Lucchetti: “Gli scompartimenti erano 2. La fornace dove si mettevano i pezzi era 1 metro di profondità, 1 metro di altezza e 50 centimetri di larghezza. La camera di combustione sotto era molto più bassa, sarà stata 30 centimetri per 30 per 1 metro di profondità.  In mezzo, dove passava il fuoco, c’erano degli archi. Tra un arco e un altro c’era una distanza di 5 centimetri, erano archi distanziati.”
Sergio Polacco
Francesco Ricci:Se la fiamma va addosso al pignatto te lo rompe,  bisogna che il fuoco gli passa tutto intorno. E allora se lasciano dei buchi e gli si mette tutto intorno con il refrattario, in modo che il fuoco passa intorno. Praticamente va dentro il calore. Anche se va dentro un po’ di fuoco non gli fa niente, però non è che può piglia’ il fuoco diretto.”

Caricare la legna e la merce nella fornace prima di accendere il fuoco non era una operazione banale. Per evitare rotture e sfruttare al massimo la capienza della fornace bisognava rispettare una serie di regole: gli oggetti dovevano essere vicini tra loro in maniera da non lasciare troppo spazi vuoti, il peso doveva essere ben distribuito evitando un carico eccessivo sulla merce posta alla base, gli oggetti più delicati andavano posizionati nella parte più interna per proteggerli dalla fiamma, l’imboccatura dei pezzi doveva rimanere sempre aperta per consentire il passaggio dell’aria, e così via.
Orlando Orlandi: “La nostra fornace era aperta, si scendevano 2-3 scalini. Si entrava proprio dentro a caricare la legna, e anche a caricare l’oggetti. I pezzi più grandi si mettevano intorno intorno, e quelli piccoli dentro. Tutto a incastro, la fornace doveva essere tutta piena. Se impilavano tutti i pignatti della stessa misura. Generalmente da crudi non se mettevano proprio impilati uno sull’altro, ma leggermente sfalsati. Invece per la seconda cottura se impilavano proprio.
L’accortezza dell’artigiano era mettere certi oggetti che erano delicati al centro della fornace, o sopra, in modo che non stavano a contatto diretto con la fiamma. E altri oggetti li mettevano sotto: i mattoni, queste cose un po’ più grezze diciamo, anche se andavano a contatto con la fiamma non succedeva nulla. Anche questi oggetti  più grandi li mettevano attorno attorno alla fornace. ”
Francesco Ricci: “Inforna’ non è facile. I forni di adesso hanno un carrello che carichi e metti dentro. Qui invece bisogna saperla mette la robba. La robba che sta sotto deve esse sempre sollevata, perciò ce se metteva qualche mattone, qualche cosa così. Poi se faceva un piano di pignatti. Una volta fatto il piano se in mezzo c’era qualche buco, allora ce se metteva una tazzina, un oggetto piccolo. E sopra ce mettevi un'altra fila di oggetti.
Bisognava mettere i pezzi in modo che rimanevano con la bocca aperta, perché si no se non passa l’aria se rompono.”

Ogni bottega aveva poi le sue particolarità ed i suoi trucchi per ottimizzare al massimo le cotture. Ad esempio nella bottega di Alverio Orlandi anche parte della camera di combustione era utilizzata per stipare gli oggetti da cuocere. La fornaci dei Pizzinelli a Tuscania, dei Ricci a Vetralla e dei Polacco ad Acquapendente erano invece strutturate a 3 livelli, e questo permetteva loro di effettuare contemporaneamente la prima e la seconda cottura dei pezzi: nella parte inferiore si caricava ovviamente la legna e nelle due superiori rispettivamente i pezzi che dovevano subire la prima e la seconda cottura.[5]
Orlando Orlandi: “Per mettere gli oggetti noi sfruttavamo pure la parte di sotto, dove c’era il fuoco. I pezzi si proteggevano dalla legna facendo una specie di muro con i mattoni o con i pignatti rotti. Quindi gli oggetti non stavano a contatto proprio con la brace. Si sfruttava al massimo lo spazio, e venivano cotti bene anche quelli.”
Gianfranco Pizzinelli: “La fornace era divisa in due parti. Quella sopra era più piccola e quella sotto più grande. Sotto la roba prendeva il fuoco diretto, e allora fino all’altezza che c’erano le forate se metteva la roba verniciata. La parte superiore - dove il fuoco ci arrivava di meno -  si mettevano le cose che si dovevano ricuocere. E allora non importava se si cuoceva poco, tanto si doveva reinfornare.”
Sergio Polacco: “Mio Padre aveva costruito un forno in muratura dove si cuoceva tanto la prima che la seconda cottura. Era diviso in una stanza più grande dove si mettevano gli oggetti smaltati e decorati, ed una più piccola dove mettevi gli oggetti di argilla. Per gli oggetti smaltati serviva più spazio perché quelli dovevano essere isolati uno dall’altro, altrimenti quando lo smalto fonde si attaccano. Invece gli oggetti di argilla possono stare accatastati, non succede niente.
Nella prima cottura l’argilla cuoce a una temperatura maggiore, nella seconda gli smalti cuociono a meno. Di conseguenza nella camera dove stava la roba in prima cottura salivano le fiamme, e con l’arrivo della fiamma gli oggetti crudi raggiungevano una temperatura più alta.

A Tuscania, dove buona parte delle fornaci si trovavano in una parte bassa del paese, il trasporto della legna per effettuare le cotture era una operazione particolarmente faticosa. Ce lo racconta Orlando Orlandi : “Il problema qui era per portare giù la legna per fare il fuoco. Solo l’argilla la portavano giù i muli, perché con i sacchi passavano e scaricavano. Ma con le ceste di legna neanche ci passava di qui il mulo. C’era uno stradello che veniva giù de qui, ma qui mica era così: era tutto dissestato, sterrato. Bisognava portare tutto a braccia, con la barella. Poi bisognava riportare su in piazza i pezzi per venderli.”

Una volta caricata la merce, per evitare la dispersione del calore si murava l’imboccatura della fornace. Sulla parte alta di questa parete veniva lasciata un’apertura – in caso di necessità tappata con un pignatto o un altro oggetto – che serviva come sfiato per l’aria ma anche per controllare a che punto era la cottura. Per capire a che temperatura era giunta la fornace e quando la cottura poteva considerarsi completata gli artigiani si orientavano osservando il colore dei pezzi.[6] Inoltre in corrispondenza dell’apertura venivano inserite delle “spie” o “provini”: dei piccoli oggetti che potevano essere estratti e osservati da vicino per verificarne la cottura.
Francesco Ricci: “Qui praticamente era tutto chiuso, veniva tutto murato, se continuava co’ li mattoni fino a che se chiudeva. A una certa altezza se lasciava un buco che se tappava con un vaso bucato. Se lasciava questo coso aperto in modo che se vedeva dentro. Quando dentro quel buco sbiancava - da rosso diventava un po’ più chiaro - era cotto.”
Bruno Lucchetti modella un fischietto
Orlando Orlandi: “Si chiudeva davanti con i pignatti rotti oppure con i mattoni. Si murava bene con la terra, con l’argilla grezza. Sopra si lasciava una finestra, un buco così che si chiudeva con un pignatto davanti. E poi c’era un altro sfiatatoio dietro, un altro tiraggio. Capivi che era cotto a occhio, dal colore, dal rossore. E poi ci mettevano dentro delle spie: ci si mettevano dentro dei pignattelli piccoli piccoli, che quando pensavano che aveva raggiunto la temperatura ne tiravano fuori uno da là sopra.”
Gianfranco Pizzinelli: “Da quel buco lì si vedevano i cocci, e allora quando era tutto bello chiaro allora era cotto. Perché se era rosso ancora non erano cotti bene. Se si vedeva qualche macchia bisognava insiste il fuoco verso quella macchia perché ancora non era arrivata alla cottura.”
Bruno Lucchetti: “Quando non c’erano più macchie nere era finita la fornace. Infatti la fornace si faceva terminare a sera in modo che si vedeva molto bene. In quel momento veniva murata la bocchetta e tornavamo dopo 2 giorni.”
Sergio Polacco: “C’era uno sportellino che si apriva per vedere la cottura e c’erano dei provini che si modellavano come una campanella con un foro sulla pancia. Se ne mettevano 3 o 4. Si tiravano fuori per vedere se la cottura era arrivata o se serviva più tempo. Si freddava e vedevi se lo smalto era fuso.”

A seconda della grandezza del forno, del tipo di legna utilizzata, e di altri fattori, la cottura poteva durare da 8-10 a oltre 24 ore. Era un lavoro fisicamente impegnativo a causa della sua durata e anche perché si era esposti a temperature elevate. Ma si trattava anche un momento di socializzazione, durante il quale ad esempio gli anziani condividevano le loro storie.
Francesco Ricci: “E’ un lavoro che non è facile. Bisogna sta qui a butta’ i legni piano piano. Questa fornace ce vonno 7-8 ore di cottura. E poi se non trovavi il legno bono ci voleva pure de più.”
Bruno Lucchetti: Fino al ‘98 abbiamo fatto la cottura nella fornace a legna. Quel forno faceva la cottura in 14 ore con 0,80 metri quadrati di legna.”
Gianfranco Pizzinelli: “La cottura mio Nonno la cominciava sempre verso le 2-3 de notte, e andava a finì verso le 11 di sera. Era fatica, era caldo, specialmente d’estate. E allora facevamo 1 ora-2 ore per uno. A me mi piaceva farlo perché io sono sempre stato un tipo che aveva freddo, e allora magari facevo anche tutta la giornata. Pigliavo le fascine e infornavo. Oppure si faceva con i trucioli del legname. Invece de buttarli li prendevamo noi e ci facevamo il fuoco.”
Bruno Orlandi: “Io me so trovato a fa 18-20 ore davanti al forno su 36 che ce ne impiega una cottura. E siccome so solo perché mio padre è vecchio, alle volte me devo porta’ giù un pezzo de pane co’ qualche cosa e stare tutto il giorno davanti al fuoco.”
Francesco Ricci: “So tante storie che mi raccontavano i vecchi quando stavamo qui intorno al fuoco. Qui c’era sempre pieno de gente grande e raccontavano le storie. Soprattutto questa grotta era frequentata da gente anziana.”

La cottura era un’operazione delicata: la temperatura andava fatta salire in maniera molto graduale per evitare di rovinare la merce. Gli errori potevano costare cari, perché potevano significare mandare a monte il lavoro di settimane.
Sergio Polacco: “All’inizio davi la tempera, poi dopo diverse ore, quando cominciava a salire la temperatura, cominciavi a mettere più legna. Toccava stare attenti a non metterne troppa altrimenti poteva causare dei danni.”
Bruno Lucchetti: “Si cominciava la sera prima, appena riempito il forno. Venivano messi dei ricci - i trucioli noi li chiamiamo ricci – che venivano accesi piano piano. Poi veniva chiusa la parte di sotto della fornace e si lasciavano consumare fino alla mattina. In questo modo i ricci levavano tutta l’umidità ai vasi.
La mattina verso le 4 si riapriva la fornace e si iniziava a mettere legna piano piano. La prima ora potevi arrivare intorno ai 100 gradi, la seconda già arrivavamo intorno ai 300, e poi piano piano bisognava mettere i ciocchi interi e si arrivava intorno ai 900. Ma non è che c’avevamo il termostato.”
Francesco Ricci: “All’inizio se mettono legna di ulivo e segatura, che non fanno fiamma e la temperatura sale piano. Poi dopo qualche ora, quando serve la fiamma, se usa legna di castagno.”

Ma nonostante tutte le cautele e l’esperienza dei cocciari, a volte durante la cottura si poteva verificare un incidente inprevisto.
Orlando Orlandi: “Qui sotto c’era la bottega di uno che lavorava e c’aveva la fornace proprio sopra lo strapiombo. Si racconta che mentre stava a tene’ fuoco gli si è scaricata la fornace, è franato tutto.”
Bruno Lucchetti: “Quando apri la fornace a legna trovi sempre delle sorprese! Una volta abbiamo fatto una cottura con il legno di fico. Il fico è una legna poco consistente ma che fa molto fumo. Quindi quando abbiamo aperto la fornace i vasi erano venuti tutti neri. Ci siamo rimasti male, perché la merce era rovinata! Però poi quando l’abbiamo esposta sugli scaffali - perché in questo mestiere non si butta mai niente -  è piaciuta, si sono comprati prima questa roba dell’altra! Comunque sono tutti errori che si fanno quando usi la fornace a legna.”
Francesco Ricci: “Se dice che i cocciari boni sono quelli che sanno coce, ed è vero! Però per quanto uno cercava di evitallo capitava sempre qualche cottura che se rovinava la robba. Magari restava qualche fessura aperta e entrava dentro il fumo, che anneriva tutto.”

Ovviamente dopo la cottura bisognava aspettare che la fornace si freddasse prima di estrarre gli oggetti. Eppure, come ci racconta Gianfranco Pizzinelli, a volte non ci si poteva concedere questo “lusso”. Nei periodi in cui c’erano degli ordini da soddisfare o c’era una fiera importante alla quale prepararsi, si scaricava la fornace ancora bollente per poter effettuare subito la cottura successiva: “Si aspettava un giorno – un giorno e mezzo e se freddava. Dopo una giornata magari si demoliva quella chiusura che avevamo fatto, levavamo qualche pezzo e allora entrava un po’ d’aria e si raffreddava prima.
Francesco Ricci carica la fornace
A volte bisognava aprirlo e tirare giù la robba, perché c’era fretta. E allora bisognava sfornarlo pure che era un po’ caldo. La catenina che avevo al collo bisognava toglierla perché scottava, bruciava. Si stava 5 minuti e poi si usciva e entrava ‘naltro. Non si faceva nemmeno a tenerle in mano le cose.
Apposta abbiamo fatto un altro forno noi. E allora si cuoceva in continuazione, in una settimana si potevano fare 2 forni. Perchè a volte magari serviva subito un carico di cose che ci avevano ordinato ma il forno era ancora troppo caldo. E allora si cuoceva di là, ne avevamo sempre uno di riserva, diciamo.”

Francesco Ricci ci parla della differente resa dei forni elettrici rispetto alle vecchie fornaci: i primi  cuociono tutto in maniera uniforme, mentre i secondi donavano ai pezzi una colorazione particolare e sempre diversa: “Quando fai la cottura col fuoco il pezzo cambia parecchio. Perché la cottura fatta elettrica è tutta pulita, mentre invece fatta con il forno a legna queste venature risaltano parecchio. Per quanto cerchi de non manna’ il fuoco addosso ai pezzi però, per quanto uno può sta’ attento, un po’ di fuoco ce va. E fa cambia’ parecchio la robba. Se non vedi come è la cottura nella fornace non te rendi conto: da sotto vedi una nuvola de fuoco.”

La decorazione

Come abbiamo visto, le botteghe del viterbese producevano esclusivamente ceramiche di uso comune, e la loro clientela era costituita dai ceti popolari. Di conseguenza, la decorazione dei pezzi era piuttosto semplice. I soggetti rappresentanti erano principalmente fiori e rami d’ulivo, e tradizionalmente erano le donne a dedicarsi a questo lavoro.
I colori utilizzati erano quasi esclusivamente il giallo – adoperato per i contorni – ed il verde – per la riempitura. D’altronde, come nota Francesco Ricci, erano questi i colori più adatti a risaltare sulla terra rossa di Vetralla e Vasanello. A Tuscania – dove si adoperava prevalentemente terra bianca, si decoravano gli oggetti anche con il manganese.
Orlando Orlandi: “Le donne erano specializzate nella decorazione. O meglio ancora nella riempitura, nella campitura: riempivano il fiore che era stato disegnato dall’artigiano. Lo facevano di getto, così. Bisognava fare veloci perché erano tanti gli oggetti.”
Felice Ricci:“ Praticamente la cosa tipica del Viterbese, di Vetralla, (era) foglie e ulive; le vecchie facevano questo lavoro e noi abbiamo imparato quello.” [7]
Francesco Ricci: “Il decoro che se faceva è questo qui, solo il giallo e il verde. Che poi altri colori su ‘sto tipo de terra manco verrebbero. Sulla creta rossa del luogo l’unica cosa che risaltava bene era il giallo e il verde.”
Gianfranco Pizzinelli: “Si schizzavano con il manganese oppure con il verde rame. Quando li richiedevano si facevano anche dei piccoli disegni, altrimenti era roba più dozzinale.”

Gli artigiani della Tuscia erano abituati a produrre autonomamente gli smalti, spesso utilizzando materiali di scarto come i residui della lavorazione del rame e del piombo.
Orlando Orlandi: “Li faceva mio Padre i colori, al tempo li faceva ancora lui. Il giallo lo facevano loro con l’antimonio, ci mettevano dentro un pochino di calce e il piombo. Il verde lo facevano con il ramato, quello che si usa anche per la vigna. Lo mettevano a bagno e poi anche lì ci mettevano un po’ di calce. La calce serviva per fissare il colore, per non farlo spolverare. E il piombo naturalmente per renderlo un po’ più fusibile. Prima c’erano in alcune botteghe i forni di calcinazione. Io mi ricordo che c’erano dei fornetti piccolini a fianco alla fornace e calcinavano ‘sto piombo.”
Sergio Polacco: “Mio padre mi ha raccontato che quando era giovane gli smalti se li facevano. Serviva un fornello per fare il marzacotto, poi bisognava tritarlo.  Erano belli gli smalti antichi: venivano fuori colori sempre diversi: più chiaro, più scuro, più grigetto, più giallo... Però oggi non è conveniente farli.”
Felice Ricci: “Prima facevamo tutto noi. Il giallo che facevamo noi a mano era antimonio e terra bianca. E il verde era la ramina, che ci dava chi faceva il rame. Facendo gli oggetti di rame usciva fuori lo scarto fine, si metteva a mollo, si passava e si faceva il colore.”
A. Lucchetti (foto Fam. Lucchetti)
Gianfranco Pizzinelli: “Ce portavano il piombo con la carretta. E poi col fuoco sotto se lavorava fino a che diventava polvere. Una volta che diventava polvere se passava e poi dopo se faceva il minio. Il minio ce se faceva la vernice per le brocche, sia l’interno che l’esterno. Mica c’erano protezioni, si faceva tutto così.”

Francesco Ricci ricorda come il processo di calcinazione degli smalti fosse una delle lavorazioni più faticose della bottega. Sergio Polacco ricorda invece che per tritare gli smalti venivano adoperati dei mulini che sfruttavano l’energia cinetiche di un vicino corso d’acqua.
Francesco Ricci: “Io l’ho fatto: è un lavoraccio, lassa perde! Si prendeva il piombo che buttavano gli stagnini, se squajava, lo mettevano qui dentro squajato, liquido. E poi se girava finché se raffreddava e diventava polvere. E io da fijo me mettevano qui sopra e giravo, giravo. C’avrò avuto 7-8 anni, neanche ci arrivavo. E alla fine dicevo: me so’ stufato! E poi la polvere se rimetteva a bagno e si dava sopra al pignatto, alla robba. Adesso quando è che me serve la cristallina la compro bella che pronta.”
Sergio Polacco: “Prima il marzacotto tritavano lungo un torrente che c’è giù ad Acquapendente, il Quinta Luna. C’era un mulinetto che girando sempre lo macinava.”

La vendita

Solo Felice Ricci, che è il cocciaro più anziano tra quelli intervistati e probabilmente anche il più legato alle antiche tradizioni, ha memoria di quando gli artigiani si occupavano direttamente della commercializzazione dei loro prodotti: ci racconta infatti di quando portava la merce a fiere e mercati di paese servendosi di un carretto. Gli altri artigiani hanno appreso il mestiere dopo il secondo dopoguerra, quando della vendita dei prodotti si occupavano ormai degli intermediari.
Felice Ricci: “Andavamo noi stessi a vendere. Ognuno andava a un paese: chi Viterbo, chi Sutri, Monterosi, Civitavecchia, Monte Romano, tutte le fiere e i mercati che si facevano una volta a settimana. Si andava via con il carretto e toccava starci giù un giorno e una notte.”
Francesco Ricci: “Io ai mercati non ce so andato mai. Ce andavano mio Zio, mio Nonno, mio Padre. Ogni cocciaro c’aveva il paese suo, per non fasse concorrenza. Per esempio mio Padre con mio Nonno c’aveva Viterbo.”
macina per gli smalti nella bottega Ricci
Orlando Orlandi: “Generalmente c’erano proprio quelli che prendevano, compravano le cose da noi e poi andavano a fa’ le fiere. Allora li chiamavamo i carrettieri, quelli che andavano con i carretti ai mercati. Arrivavano addirittura ai Castelli o in Umbria, quando c’erano le fiere più importanti. Caricavano con i carretti, e stavano fuori pure qualche giorno quando andavano lontano.”
Gianfranco Pizzinelli: “Venivano col carretto col somarello. Prendevano i boccaletti, un po’ di giocattoli, un po’ de vasi, de conchette pe’ lava’ i panni, queste cose qui. Caricavano ‘sta robba e la portavano in tutti questi paesi lì intorno.”

Orlando Orlandi ci spiega come funzionava il “conto”-  l’unità di misura  adottata a Vasanello come per regolare le transazioni tra pignattari e grossisti: “Questi oggetti venivano venduti ai carrettieri a conti. Praticamente stabilivano un prezzo a conto - per esempio 500 lire. Il conto era un unità di misura: per esempio 2 conche erano un conto e anche 20 pignattelli piccoli era un conto. Poi c’erano pignatti di varie misure, da 10, da 15, da 12. Quelli da 8 li chiamavano gli ottaioli, che cominciavano a esse grandi.”

Vi era poi la vendita al dettaglio presso la bottega, che nella Tuscia rurale e contadina di pochi decenni fa assumeva spesso la forma del baratto di oggetti in terracotta con prodotti agricoli.
Orlando Orlandi: “Si vendeva anche direttamente: era il cosiddetto mercato del baratto. Si vendeva così, al minuto, a chi serviva una bocchetta, a chi una casseruola da fuoco…”

L’apprendistato dei cocciari

Gli artigiani intervistati – tutti figli e nipoti di pignattai – hanno imparato il mestiere fin da giovanissimi nella bottega di famiglia. Alcuni di loro sottolineano anzi come per imparare tutti i trucchi del mestiere sia stato fondamentale crescere in quell’ambiente: già da bambini si iniziava svolgendo le prime elementari mansioni quasi come se fosse un gioco; poi si passava a compiti via via più complessi in un processo di apprendimento che si può definire spontaneo.
Francesco Ricci: “Che mi sono messo proprio sopra il tornio c’avrò avuto 13 anni. Però da piccoletto stavo sempre lì ad aiuta’ mio Zio. Cioè giocavo, gli davo fastidio in realtà! Però stavo lì in bottega. Dopo, a 13-14 anni ho iniziato proprio a mette’ al centro la creta. Mio Papà me metteva un pezzo di creta e me diceva: adesso mettila al centro e facce questa cosa qui. Quando ho iniziato facevo i coperchi.
Alla fine ‘sto lavoro se lo impari come gioco lo sai fa’. Io ho iniziato a gioca’ con la creta ed è diventata una cosa normale. Solo che devi iniziare da piccolo, devi sta’ qui dentro da fijo a impara’. Soprattutto a quei tempi,  perché adesso se vuoi fare questo mestiere compri un forno elettrico e coci. Invece con la fornace a legna dovevi sapere pure come coce, e come infornalla la robba. Devi pure sape’ fa’ la creta. E allora qui dentro se imparava tutto, sempre giocando.”
Orlando Orlandi: “Da quando io andavo alle elementari, quando uscivo da scuola andavo giù alla bottega di mio Padre e mi mettevo lì sul tornio. Poi a 15 anni sono andato a lavorare giù alla ceramica del marchese Pisantelli.”
Sergio Polacco: “Questo mestiere lo faccio da sempre, da quando sono nato. Quando ero ragazzino già frequentavo l’ambiente, e sono andato avanti.”
Bruno Orlandi: “Ho iniziato a 12 anni, anzi prima, perché anche quando si andava a scuola si usciva, e nel pomeriggio mio padre mi portava qui a spostare le pignatte, le casseruole o a impastare l’argilla; e poi ci faceva fare i coperchi, gli oggetti più elementari,  poi i pignatti piccoli, poi quelli più grandi, poi mano mano che passava il tempo facevo cose sempre più grandi.”

I Fischietti della Tuscia

Nella ricchissima tradizione di ceramiche fischianti italiane, la Tuscia rappresenta una di quelle aree caratterizzate da una produzione molto semplice ma dotata - forse proprio in ragione della sua essenzialità -  di grande fascino ed espressività.[8] La primitività di questi fischietti è attribuibile a varie ragioni, compresa la necessità di non dedicare troppo tempo ad un singolo pezzo, ma anche all’abitudine di riprodurre forme arcaiche e tramandate di generazione in generazione.[9]

In ciascun centro di produzione veniva realizzato un numero limitatissimo di soggetti, normalmente zoomorfi e modellati a mano:
A Vetralla erano 3 le forme di fischietto realizzate dagli artigiani: il bue, l’asino e il cavaliere a cavallo.
Felice Ricci: “Avevano la forma come gli animali: c’era la vacca, il somarello, il cavalluccio con il cavaliere sopra. Le forme erano sempre quelle, cambiava la mano.”
Francesco Ricci: “I fischietti di Vetralla erano quelli: il cavallo col fantino sopra, la mucca e il somaro con la capoccia storta. Veniva fatto sempre con la testa girata, non so perché.

A Vasanello il fischietto più diffuso era il cavaliere, spesso identificato con San Lanno – un santo guerriero. Veniva inoltre prodotta la patalocca - un fischietto di forma sferica utilizzato come richiamo da caccia. [10]
Ovidio Orlandi: “I fischietti erano quelli cavalluzzi con il santo…fischiavano invece della coda.”
antica fornace di Vasanello (foto G. Croce)
Orlando Orlandi: “Generalmente qui facevano il cavalluccio, sempre col cavaliere. E’ associato a San Lanno perché San Lanno era un cavaliere romano, un cavaliere di Cristo. E allora dicevano: è il cavalluccio di San Lanno - forse anche per una questione di devozione. C’era la festa del Santo il 5 maggio. C’era sempre questo cappuccetto: boh, sarà l’elmo del guerriero, non lo so.
E questa è la famosa patalocca. Era per i cacciatori, per il richiamo delle tortore. Ha questo buco per modulare il suono.”

A Tuscania i fischietti avevano prevalentemente forme di uccelli ed altri animali.
Gianfranco Pizzinelli: “De solito se facevano le paperelle, i piccioncini, se facevano i galletti, queste cose qui. Anche i pesciolini che fischiavano e qualche ocarina, però era difficile intonarle.”
Bruno Lucchetti: “Mio Padre li faceva a forma di animale: torni, cavalli, cigni, cinghiali

In tutti e 3 questi centri venivano inoltre prodotte delle elementari ocarine, anche se la loro diffusione era limitata perchè – a quanto affermano gli stessi artigiani – la loro realizzazione era lunga e complessa.
Francesco Ricci: “Poi c’era anche l’ocarina, tipo uccello con i buchi sopra. Però era un po’ più difficile farle sona’. Con un po’ di pazienza, parecchia pure, se riusciva.”
Orlando Orlandi: Il ciufoletto lo facevano, però non è che ne facevano proprio tanti. A me ricordo che me l’aveva fatta una Babbo, quando ero piccolino. Era a forma di trombetta con i buchetti sopra. Il suono lo potevi modulare attraverso i buchi, come l’ocarina.”
Bruno Lucchetti: “(Mio Padre) faceva anche l’ocarina classica, che con i fori cambiava suono.”

Ad Acquapendente veniva prodotto un maggior numero di soggetti: di questo centro si hanno testimonianze di fischietti in forma antropomorfa – come il soldato e il marinaio – zoomorfa – come galletti e cavallucci – ed anche di fischietti ad acqua. La maggiore varietà di forme è probabilmente attribuibile al fatto che qui la tecnica prevalente era quella dello stampo.
Osvaldo Polacco: “Se facevano a stampo il soldatino oppure c’era il gallo…se facevano pure con l’acqua…era come un bicchierino
Sergio Polacco: “Di solito si faceva un galletto, un cavalluccio, un soldatino, qualcosa di genere.”[11]

Nella gran parte dei casi i fischietti della Tuscia erano modellati a mano.
Gianfranco Pizzinelli: “E’ semplice farli: si faceva il fischietto vuoto, poi dopo nella pancia si faceva un buchetto, e in fondo alla coda si bucava e fischiava. Il galletto, il pesciolino, tutti dalla coda si facevano fischià.”
Ovidio Orlandi: “(il San Lanno) de dietro invece de faje la coda se lasciava un pezzetto così, poi je se faceva un buco, un buco sopra e veniva il fischietto”
Bruno Lucchetti: “Io e mio Padre facevamo i fischietti assieme quando io c’avevo 20 anni. Io gli facevo la forma dell’animale e lui faceva i fori. Faceva il foro con il minerva, il cerino di legno.”

Tuttavia, come già accennato, ad Acquapendente si utilizzava invece la tecnica dello stampo di gesso. Bruno Lucchetti riferisce che anche a Tuscania accanto agli animali modellati a mano si realizzavano fischietti antropomorfi a stampo. In fine, Orlando Orlandi spiega come a Vasanello il cavallo poteva essere modellato con l’aiuto del tornio.
Sergio Polacco: “Questo è lo stampino di gesso: si calcava e si faceva la figura.  Il fischietto è fatto a mano, poi si attacca dietro.”
Angelo Lucchetti: “Si facevano quelli a forma di persona con lo stampo.”
Orlando Orlandi: “Mio Padre il cavalluccio lo faceva al tornio. Tirava al tornio un cilindro così, in modo che già con questo gli modellava il collo del cavallo e la testa. Il cavaliere se faceva a mano e poi si incollava sopra.”

I fischietti venivano cotti insieme agli oggetti più grandi, disponendoli nelle fornaci in maniera da riempire gli spazi rimasti vuoti. Erano inoltre oggetti che si prestavano a fare da spie – che come abbiamo visto erano piccoli oggetti che servivano a verificare il completamento della cottura.[12]
Orlando Orlandi: “Per cuocerli li mettevano nei pignatti grandi. Per sfruttare gli spazi, nei pignatti grandi ci mettevano dentro un pignattello piccolo, poi qualche coperchio e 2 o 3 cavallucci.”

La decorazione dei fischietti – quando non del tutto assente - era molto essenziale. A volte ci si limitava a invetriate i pezzi, altre volte si riprendevano i motivi della decorazione dei pignatti, ovviamente in versione semplificata: si tracciavano sull’oggetto alcuni semplici segni o lo si schizzava con i caratteristici colori giallo e verde. Solo una testimonianza – quella di Ovidio Orlandi – sembra indicare che gli smalti colorati venissero usati per decorare l’abito della figura modellata – nello specifico il mantello rosso del San Lanno.
Orlando Orlandi: “Alcuni li facevano grezzi così, e alcuni lucidi con la vetrina. Oppure gli davano una schizzata col giallo e col verde.”
Sergio Polacco: “Si dipingevano a freddo con i colori che c’erano prima. O addirittura si imbiancavano con la calce e poi si coloravano. Era una cosa molto primitiva.”
Francesco Ricci: “Il decoro che se faceva è questo qui. Questi due segni qua gialli o verdi. Il verde col rame e il giallo con l’antimonio.”
Ovidio Orlandi: “(San Lanno) c’aveva un manto rosso come un arancia, tutto rosso come la vernice che se da”

Ovviamente la funzione dei fischietti era quella di giocattoli per bambini.
Felice Ricci: “Non c’erano i giochi come adesso, c’erano questi di terracotta o quelli di legno, di cartone, sempre  fatti a mano.”
Orlando Orlandi: “Che poi praticamente era il giocattolo dei bambini questo. Più che altro era il giocattolo della befana.”

La commercializzazione avveniva con varie modalità. Alcuni cocciari riferiscono che i fischietti venivano acquistati prevalentemente presso la bottega, altri che venivano venduti anche nei mercati. Qualcuno ricorda che venivano comprati dai robivecchi che poi li utilizzavano come merce di scambio. In fine, Gianfranco Pizzinelli ci offre uno spunto curioso rispetto alla vendita di questi giocattolini: tra le altre cose erano smerciati dai rivenditori di verdure.
Francesco Ricci: “Li vendevamo al mercato. Avoja quanti se ne vendevano. Era ‘na cosa richiesta! Forse perché non c’era chi li faceva.”
Orlando Orlandi: “Generalmente le famiglie compravano il cavalluccio di San Lanno qui alla bottega. Perché non è ne  facevano tanti. Li prendevano pure quelli che andavano a fa’ i mercati, che vendevano la robba di stoviglieria. Li portavano nei mercati, nelle fiere, e li vendevano così.”
Angelo Lucchetti: “Venivano i stracciaroli a prende fischietti, campanelli e giocattoli, facevano a cambio co’ li stracci pe’ fa gioca’ i ragazzini.”
Gianfranco Pizzinelli: “C’erano le botteghe che vendevano la verdura e c’avevano anche una cesta e dentro c’erano tutte queste cose qui, i giocattolini. I bambini andavano li a prendere la verdura con i genitori, si innammoravano e si compravano una bocchetta.”

Il margine di ricavo dei fischietti era comunque relativo, sia perché trattandosi di giocattoli poveri il prezzo doveva essere molto contenuto, sia perché modellare un fischietto e farlo suonare era una operazione relativamente lunga. Per questa ragione i maestri si dedicavano a modellare i fischietti prevalentemente nella stagione invernale – quando il freddo impediva di dedicarsi alla tornitura – o a casa alla fine della giornata di lavoro.
Felice Ricci: “Dai fischietti si guadagnava poca robba, più  che altro si vendevano le cose per cucinare, per portarci l’acqua, per lavarsi. Per i fischietti a quei tempi non avevano tanti soldi le famiglie. Adesso li comprano per ricordo, per ornamento. Non solo i fischietti, anche oggetti di ceramica.”
Francesco Ricci: “Ce vole tempo a fare i1 fischietto. Se ce indovini fischia subito, sinnò te fa’ ammattì. Ad esempio oggi a fa’ questo fischietto ci ho messo 10 minuti, e a fa’ quel tegame 2 minuti. Prima dovevano lavora’ e ce dovevano campa’ con questo mestiere. Mio Padre doveva fa’ la robba pe’ venderla e per tirare avanti la famiglia, non poteva mettersi a fa’ i fischietti. Doveva fa’ il pignatto, la brocca.”
Francesco Ricci sul tornio (foto G. Croce)
Orlando Orlandi: “Giù alla bottega non potevano sta’ a perde tempo a fare i fischietti, e allora le facevano in casa queste cose, generalmente la sera. E non è che ne facevano tanti.”
Francesco Ricci: “Queste vanno bene intorno al fuoco, quando è freddo. Io l’inverno accendo la stufa e li fo.”
Orlando Orlandi: “Ai tempi di mio Padre li facevano durante il periodo invernale, li facevano.”

Ma soprattutto, erano le figure meno produttive della bottega – come apprendisti e cocciari ormai anziani - a occuparsi dei fischietti. Ai bambini era a volte consentito di tenere per sé il ricavato della vendita dei fischietti.[13]
Francesco Ricci: “Il fischietto lo faceva il ragazzetto oppure il pensionato. Per passare il tempo se metteva a fa’ sta robba.”
Angelo Ricci: “Roba piccola a quel modo la facevano più che altro i ragazzini. L’omini anziani uno doveva lavora’, fa’ il grosso, mica poteva perde la giornata a fa’ quelli li”
Gianfranco Pizzinelli: “Da ragazzino facevo i fischietti, queste cose qui. Erano soprattutto i ragazzi a fare i giocattoli. I soldi mio Padre me li faceva pijà a me. Per avere qualche soldo in tasca, invece de darmi lui qualcosa  la domenica mi dava i soldi che aveva venduto ‘sta roba qui.”

Oltre ai fischietti, nelle botteghe della Tuscia si modellavano giocattoli di diverso tipo: le miniature degli utensili da cucina – o coccetti, ma anche salvadanai, campanelle, gobbetti portafortuna. L’occasione principale in cui venivano regalati questi giocattoli era l’Epifania.
Orlando Orlandi: “Riproducevano gli oggetti per la cucina, che erano il giocattolino per le bambine. Le miniature si facevano il periodo per le feste dell’Epifania.
Facevano qualche presepe. Mio padre ad esempio faceva i pupazzetti per il presepe quando eravamo ragazzini.”
Bruno Lucchetti: “Mio Padre faceva le campanelle. Le torniva tagliandole da un mucchio di argilla e venivano sagomate proprio come le campane. Da quello che mi ricordo si facevano per la festa di San Giovanni a Roma.”
Gianfranco Pizzinelli: “Si facevano i dindaroli e il gobbetto che portava fortuna, qualche campanella. E poi si facevano anche le bocchette, le pentoline, le pignatte piccole. Per la Befana portavano ai bambini tutte queste cosette qui, glie le mettevano sopra al camino come adesso si mettono sotto all’albero. Quelli erano i giocattoli che si facevano di solito quando c’era la Befana. Per Natale niente, non usava.”

Dalle testimonianze raccolte appare chiaro che imparare a modellare i fischietti e gli altri giocattoli fosse una parte importante dell’apprendistato dei cocciari. Francesco Ricci racconta invece come per imparare a fare i fischietti dovette “rubare” la tecnica ad un vecchio maestro.
Gianfranco Pizzinelli: “Ad esempio a fa le brocchette, quelle cose li, ci ho imparato. Poi mio Nonno alla domenica gli attaccava il beccuccio o i manichetti.”
Ovidio Orlandi: “Cominciai a fa qualche gingilletto piccoletto e in poco tempo ne imparai, via! ..tutti i giocattoli pei ragazzini. Le concoline se facevano pure”
Francesco Ricci: “Io il fischietto l’ho imparato da un altro pignattaro che lo faceva così, per hobby, che questo mestiere già l’aveva smesso de fallo. Però non è che m’ha imparato, lo guardavo io mentre lo faceva e ho imparato. Perché era geloso che sapeva fa’ sta robba e non ha voluto mai imparà a nessuno. Quando era pensionato stava qui, e faceva ‘sti cavallucci. Io guardavo, guardavo, guardavo, e alla fine, prova e riprova ce sono riuscito anche io.”

La crisi delle botteghe e la produzione attuale

La crisi di questo sistema produttivo ebbe inizio negli anni ’50, e i suoi effetti furono drastici. I produttori di ceramiche di uso comune della Tuscia non riuscirono a riconvertirsi nella produzione di ceramiche artistiche, e nel corso di pochissimi decenni la copiosa produzione di cocci e fischietti della zona era praticamente sparita.
Bruno Orlandi “Purtroppo dopo la guerra, co’ l’avvento dell’alluminio, ha messo in crisi questo artigianato quà, e tutti quelli che avevano imparato o hanno cercato di incominciare hanno smesso tutti quanti…a quell’epoca lì tutti hanno lasciato perdere, giovani ed anziani, indistintamente”
Francesco Ricci: “Hanno cominciato a anda’ via dopo la guerra parecchi pignattari. Hanno trovato altre strade. E l’unico che è rimasto è mio Padre con mio Zio e mio Nonno. Quando ero ragazzetto qui già non c’era più nessun altro. Ti parlo degli anni ’60.
Felice Ricci: “Ora le grotte sono tutte chiuse. Ormai lo sanno tutti che qui a Vetralla non c’è più nessuno. E’ un mestiere finito, come il fabbro o i tessitori che facevano i vestiti con la canapa. Ora ci sono cose fatte a macchina, più rifinite, con terra migliore.”
Orlando Orlandi: “Nel giro degli anni ‘50 e inizi ’60 erano finite parecchie botteghe. In poco tempo erano rimasti solo mio Padre, mio Zio, e Vitaliano - che era un cugino de mio Padre, sempre un Orlandi.”
Angelo Lucchetti: “(Si vendeva) fino al ’62, dopo è scappata fori la plastica, è scappata fori tutta ‘sta roba qui, alluminio…”

Anche se il grosso delle botteghe chiuse i battenti entro gli anni ’60 dello scorso secolo, bisogna sottolineare che alcuni cocciari hanno continuato tenacemente a portare avanti la produzione fino ad anni più recenti. A Tuscania, ad esempio, Angelo Lucchetti ha realizzato i suoi cocci fino a una quindicina di anni fa.
Angelo Lucchetti: “A Tuscania so’ rimasto unico e raro…perché tutti cercano un impiego, cercano una mesata sicura, e purtroppo pe’ ‘sti lavori qui non c’è”
Bruno Lucchetti: “Fino al ’98 - ‘99 lui ha continuato a tornire, anche se non era più la tornitura di quando aveva la cocceria. E la cottura a legna fino al ‘98 l’abbiamo fatta.”

Ad Acquapendente, la famiglia Polacco continua a gestire la BAMA, una fabbrica di ceramiche dotata di impianti moderni. Sergio è andato in pensione, ma la continuità della tradizione famigliare è garantita – dato che due suoi figli continuano a occuparsi dell’attività. Purtroppo negli ultimi anni gli effetti della crisi economica si sono fatti sentire in modo negativo. 
Sergio Polacco: “Io mi sono ritirato ma hanno continuato i miei figli. Prima avevamo dei dipendenti, ma ormai lavorano in tre. Prima il lavoro era molto più manuale, l’attrezzatura non c’era. Però oggi nonostante l’attrezzatura i problemi sono quelli del mercato.
Io invece mi diverto a fare riproduzioni del XIV o XV secolo. Lo faccio con passione: anziché stare in paese al bar come tanti pensionati mi diverto a fare queste cose.”

A Tuscania, dopo la scomparsa del maestro Angelo, la famiglia Lucchetti è rimasta nel settore della ceramica pur cambiando completamente tipologia di oggetti realizzati. Nel negozio-laboratorio realizzano e vendono al pubblico ceramiche in stile etrusco. La produzione è portata avanti principalmente da Elisa Danella, nuora di Angelo e moglie di Bruno.

A Vetralla Felice Ricci, pur se pensionato, ha continuato a tenere aperta l’ultima cocceria di via dei Pilari  fino a pochi anni fa: “Io sono ancora vivo ma non ce la fò più, gli anni passano! Sono 4 anni che non faccio più niente: ho smesso come hanno fatto tutti. Se vi fate una passeggiata vedete tutto chiuso. E’ finito tutto e tutto abbandonato.”

Dopo la scomparsa di questo anziano Maestro, il compito di tenere viva la tradizione dei cocci vetrallesi è stato assunto dal nipote. Postino di professione, Francesco non ha mai dimenticato il mestiere imparato nella grotta di famiglia, e qui continua a realizzare per hobby cocci e fischietti:  “Ho lavorato nella bottega di famiglia fino a 25 anni, fino a che non sono entrato alle Poste. Però a questo lavoro ci ho sempre tenuto. A parte che mi piace farlo, e poi chi ha imparato a fare quello resta sempre il suo mestiere. Non è che faccio un grande quantitativo di roba. La porto alle manifestazioni che fanno qui a Vetralla. Oppure se a uno gli serve qualcosa per coce sul fuoco, qualche pignatto, qualche sugarola me la chiede e glie la faccio.”

Francesco continua peraltro a utilizzare metodi di produzione sorprendentemente tradizionali. Anzitutto si serve esclusivamente di un vecchio tornio a pedale: “Uso sempre questo tornio: ho provato anche quello elettrico ma se non sai regolare la velocità va troppo veloce. Ma io me trovo bene con questo. Di cose da fare non è che ce ne ho molte, ma sto qui così, me piace. Me dispiace anche lascia’ perde.”

I pezzi vengono cotti nella fornace a legna della grotta, da lui appositamente restaurata: “Il forno l’ho smontato giù tutto perché coci e ricoci alla fine pure questi mattoni si consumano e non vanno più bene. E allora tocca rimetterceli novi. E’ la quarta volta che utilizzo la fornace a legna da quando l’ho restaurata. Solo che dove ci sono quegli archi ho chiuso con dei cocci, così è diventata più piccola. Prima era tutto aperto e ci andava molta più robba.”

A volte anche la creta utilizzata è quella locale: “Alcune cose le faccio con la terra raccolta, ancora ne ho una scorta. Questa l’ho fatta io, se la senti è più granulosa di quella impastata con le macchine. La differenza se vede, è più ruvida perché è passata tutta a mano, grossolanamente.
Più che altro la uso per qualcuno che gli piacciono le cose rustiche. Faccio qualche tegame, qualche piatto, qualche bacinetta. E poi per i fischietti.” 
cavalluccio (San Lanno) di Orlando Orlandi (foto G. Croce)
I testi sono di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata


[1] E. Silvestrini (cur.), Ceramica popolare del Lazio, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Edizioni Quasar, Roma 1982; i brani ripresi dal volume sono quelli di Bruno e Ovidio Orlandi di Vasanello, Angelo Lucchetti di Tuscania, Osvaldo Polacco di Acquapendente, Angelo e Felice Ricci di Vetralla (per quanto riguarda quest’ultimo artigiano i brani sono presi da Ceramiche Popolari del Lazio solo ove indicato; nei casi restanti si tratta dell’ intervista di prima mano realizzata nel 2009).
[2] Succedeva spesso che gli artigiani si spostassero da un paese all’altro in cerca di migliori prospettive di guadagno. Se la famiglia Pizzinelli si trasferisce dalla Toscana al Lazio, il contrario avviene per Luigino Porri, cocciaro originario della Tuscia che trasferì la sua bottega a Sorano. Si vedano G. Morandi, Cocci e Fischietti - l’arte di Luigino Porri nel solco della tradizione, 2003 e L. Porri, I cocci di una vita, Stampalternativa, 2003.
[3] E. Silvestrini, op. cit., nota come i principali ruoli assegnati alle donne fossero preparare la creta, spostare gli oggetti, ed effettuare la decorazione dei pezzi.
[4] E’ la situazione rilevata nei primi anni ’80 dalla ricerca realizzata nell’articolo di M. Trifoni “Tecniche Costruttive” e riportata in E. Silvestrini, Op. Cit.; ma abbiamo verificato di persona che Felice Ricci ancora utilizzava analoghe tecniche produttive nei primi anni del XXI° secolo.
[5] Bisogna peraltro notare una diversa prassi tra le diverse botteghe. I Pizzinelli e gli Orlandi utilizzavano la camera superiore per cuocere i pezzi ancora crudi e quella centrale – dove la temperatura era più alta - per effettuare la smaltatura. I Polacco facevano il contrario.
[6] Nell’articolo di M. Trifoni “Tecniche Costruttive”, in E. Silvestrini, op. cit. si nota come a seconda delle diverse tipologie di creta, la cottura si può considerare completata quando il colore degli oggetti è rosso fuoco oppure quando schiarisce.
[7] Citazione ripresa da E. Silvestrini, op. cit.
[8] Analogo discorso può essere fatto per i fischietti di Ficulle, Montelupo Fiorentino, Sorano; similitudini fra i fischietti laziali, toscani e umbri sono state d’altronde già notate da R. Biagi e A. Pontremolesi “Fischietti del Lazio”, in S. Cardello (cur.) SIBILUS 4, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, 2004 e F. Scarsella “Centri di Produzione” in E. Silvestrini, op. cit.
[9] Si veda F. Sgrò “Fischietti” in E. Silvestrini, op. cit.
[10] La pubblicazione di R. Biagi, op. cit., riporta nel catalogo una serie di fischietti zoomorfi di Linceo Orlandi diversi dal cavalluccio, ma precisa che si tratta di produzioni recenti, probabilmente realizzate per soddisfare le richieste dei collezionisti.
[11] Le testimonianze dei cocciari di Acquapendente sono confermate anche da due fischietti in forma di marinaio e figura antropomorfa risalenti agli anni ’60 ed appartenenti alla collezione del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari. Si veda MNTP, op. cit.
[12] Lo riferisce la pubblicazione P. Piangerelli (cur), La Terra, il Fuoco, l’Aria, il Soffio – la collezione di fischietti di terracotta del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni popolari, De Luca 1995.
[13] Secondo F. Sgro “Fischietti” in E. Silvestrini, op. cit., anche le donne si dedicavano alla realizzazione dei fischietti, circostanza che almeno per il Sud del Lazio è confortata da varie  testimonianze.

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